26 febbraio 2013

La plastica entra nella catena alimentare


L’esistenza di vasto accumulo di rifiuti in diverse parti degli oceani e in molte coste è ormai un dato evidente, ma le conseguenze di un secolo di inquinamento dei mari sono ancora in parte sconosciute e necessitano nuovi approcci di ricerca.
Su Current Biology di questo mese viene fatto il punto della situazione, fra nuove ricerche, ipotesi e soluzioni per risolvere un problema vasto e cruciale.
In circa un mese trascorso a setacciare le acque di Honolulu, un gruppo di 38 ricercatori e volontari con a capo la biologa marina Emelia DeForce, ha raccolto circa 70 mila pezzi di plastica, per un totale di 118 tonnellate.
L’area interessata è la ormai leggendaria Great Pacific Garbage Patch, l’isola galeggiante di spazzatura, un agglomerato di rifiuti trasportati dalle coste attraverso le correnti oceaniche.
Esistono cinque grandi correnti nel mondo, che ruotano in senso orario nell’emisfero boreale e in senso antiorario in quello australe. Sono le grandi arterie degli oceani, attraverso le quali avvengono gli scambi termici e di nutrienti e lungo le quali s’intrecciano le rotte migratorie di uccelli, pesci e tartarughe.
L’intrusione di materiali plastici in queste grandi correnti ha conseguenze varie, come l’ingestione da parte di animali che scambiano buste di plastica per meduse, provocando la morte per soffocamento. Gli Albatros scambiano pezzi di plastica per cibo, dandoli addirittura ai propri piccoli.
E non è l’unico uccello marino ad aver inserito la plastica nella propria dieta: il Fulmaro (Fulmarus glacialis) che vive sulle coste del Nord Atlantico e del Nord Pacifico, è considerato addirittura un indicatore per inquinamento da plastica, per l’accumulo di questo materiale nel suo stomaco.
Il problema è ancora più esteso se si considera la possibilità che minuscole particelle di plastica siano entrate nella catena alimentare degli oceani e dunque anche dell’uomo.
Secondo Anthony Andrady della North Carolina State University, la plastica che negli anni viene decomposta dall’azione del sole e dell’ossigeno, si trasforma in nanoparticelle che penetrano nell’organismo attraverso l’endocitosi. Per questo anche le plastiche biodegradabili non solo non risolverebbero il problema dell’inquinamento, ma addirittura lo moltiplicherebbero per tutti i miliardi di frammenti che penetrano nei tessuti degli esseri viventi.
Ricercatori del National Oceanic and Atmospheric Administraton hanno affrontato lo stesso problema analizzando campioni di zooplancton raccolti a largo delle coste americane del Pacifico. Anche le conclusioni di questo studio non sono confortanti: il zooplancton, alla base della catena alimentare oceanica, ha a sua volta ingerito nanoparticelle di plastica.
Che si assimilino in maniera chimica attraverso i tessuti o semplicemente mediante ingestione, le particelle hanno conseguenze sugli organismi sia nell’immediato sia per le generazioni future, poiché potrebbero innescare cambiamenti genetici. Se infatti alcuni materiali sono chimicamente inerti, altri sono tossici. Per questo secondo Miriam Doyle , che ha collaborato alla ricerca con il NOAA sul zooplancton del Pacifico, è necessario focalizzare la ricerca sulle tipologie di particelle per capire quale effetto abbiano sull’ambiente.
Campagne del NOAA e di molte associazioni ambientaliste hanno spinto negli ultimi anni la stessa industria a riconsiderare i propri comportamenti: nel sito del NOAAs Marine Debris Program si trova una lista di industrie che hanno adottato materiali o tecniche per ridurre l’uso di plastica.
Nel frattempo la ricerca prosegue, con dati ancora frammentari, ma con una certezza: le cosiddette isole di plastica sono solo la punta dell’iceberg di un problema tanto più pericoloso quanto più esteso geograficamente e biologicamente.

fonte: gaianews

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